Un itinerario inconsueto e pieno di mistero che ci fa percorrere dei luoghi ricchi di fascino, di storie e personaggi fantastici come gli Orchi e le Anguane, entrambi personaggi mitologici della tradizione popolare della Lessinia orientale. Iniziamo il percorso da San Bortolo, il paese dei trombini, e per vari sentieri ci portiamo nei pressi di Durlo da cui in falsopiano giungiamo prima al Buso delle Anguane, splendida grotta naturale. Ritornando sui passi e con deviazione arriviamo a Durlo, sotto l'omonima Purga e cioé un ex vulcano del Giurassico dove è prevista la sosta pranzo a sacco o in ambiente convenzionato. Si riparte e con direzione nord-ovest entriamo nella valle dell'Orco chiudendo tranquillamente l'anello col nostro punto di partenza.
CARATTERISTICHE: DIFFICOLTA': media; DISLIVELLO ATTIVO: 800m - LUNGHEZZA: 20,50 km - DURATA: 6 ore 30'
Una interessante escursione tra i miti e le leggende della Lessinia, che Lucio conosce bene e che fa conoscere a molte persone. Quel gusto d'antico che solo una terra povera e travagliata sa dare, dove il lavoro nei campi e nei boschi è ancora una delle primarie fonti di reddito nonostante l'avvento della tecnologia e della globalizzazione le cui tracce più evidenti si trovano nei Suv di fabbricazione giapponese e nelle antenne che collegano questo "piccolo grande mondo antico" al frastornante mondo esterno.
DA SAN BORTOLO
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San Bortolo delle Montagne
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Dal Buso.....
DURLO E IL BUSO DELLE ANGUANE
Le anguane o angoane – le prime figure dell’immaginario lessinico che intendo raccontare– costituiscono – come, del resto, ogni questione – un argomento complesso, denso di risvolti e di problemi che vanno oltre il territorio lessinico. Vediamo, comunque, che cosa si può dire rimanendo all’interno di un discorso semplice, piano e limitato ai nostri monti.
Le anguane sono esseri fantastici comuni a diversi territori dell’Arco alpino: se ne parla nelle Dolomiti, nel Friuli, sono presenti nel Vicentino e sono particolarmente radicate anche nella nostra Lessinia, specialmente nell’area centro-orientale. Aurelio Garobbio ci assicura che «Le anguane cantavano sulle rive del Garda e trascinavano nei gorghi chi seguiva l’invito seducente… », che erano presenti in Valpolicella dove ci sono il “Monte delle anguane”, le “Sengie delle anguane”, il “Vajo delle anguane”. Nel vajo che va a Campodalbero abitava la bella anguana Ittele. Insomma sulle nostre montagne le anguane non mancano.
Il significato etimologico di anguana pare abbastanza chiaro, indica una sirena abitatrice delle acque, e si cita, a questo proposito, il provenzale aigua > acqua. Non è questione da poco se pensiamo a quanto le sorgenti fossero, un tempo, particolarmente preziose per la vita stessa. Ma il professor Volpato ricorda anche la possibilità di far derivare il sostantivo da
anguis> serpe, cui il lemma veronese àngià rimanda chiaramente, non per nulla questi esseri femminili sono spesso ricordati con un serpente attorcigliato al corpo a mo’ di cintura.
Garobbio le chiama «Le donne delle acque». Alessandro Norsa ne coglie la dimensione diacronica ed evolutiva, svelando che si tratterebbe di «echi di figure della tradizione precristiana connesse al culto di entità femminili». Enrico Gleria avverte che «spesso si confondono con le ondine delle saghe nordiche e scandinave o con le ninfe di pantheon greco romano». Per Piero Piazzola a Campofontana abitavano delle anguane che prendevano il nome locale di “Bele butele”, una “razza” tutta particolare di figure del fantastico. Domenico Luciano Nordera, che assimila tout court le anguane alle “Beate Genti”, così le definisce: «sono degli esseri femminili che vivono in un regno intermedio tra i vivi e i morti, tra la notte e il giorno». Quanto ai comportamenti, essi sono quanto mai vari, complessi e talvolta contradditori. Vediamone alcuni.
Piazzola si concentra sulle anguane di Campofontana: erano donne bellissime, uscivano dalle caverne al suono serale dell’Ave Maria e vi rientravano con l’Ave Maria del mattino, aiutavano le donne del paese soprattutto a fare il bucato ma solo se la
biancheria e la lana erano bianche, tenevano pulite le sorgenti, vestivano sempre di nero, durante la notte tendevano delle lunghissime corde tra un monte e l’altro delle valli e vi stendevano il bucato, talvolta camminavano sulle corde lanciando acute grida per spaventare gli uccelli che avessero avuto intenzione di posarsi sulla biancheria, erano donne buone ma particolarmente permalose, attiravano gli uomini per renderli schiavi e via dicendo. L’elenco dei loro originali modi di fare può essere ancora lungo, ma penso di poterlo terminare qui, sia perché attraverso la leggenda dell’anguana Seralda vedremo qualche altro aspetto riguardante la categoria, sia perché parlando delle Fade troveremo un’altra occasione per ritornare sul tema.
Le anguane sono esseri fantastici comuni a diversi territori dell’Arco alpino: se ne parla nelle Dolomiti, nel Friuli, sono presenti nel Vicentino e sono particolarmente radicate anche nella nostra Lessinia, specialmente nell’area centro-orientale. Aurelio Garobbio ci assicura che «Le anguane cantavano sulle rive del Garda e trascinavano nei gorghi chi seguiva l’invito seducente… », che erano presenti in Valpolicella dove ci sono il “Monte delle anguane”, le “Sengie delle anguane”, il “Vajo delle anguane”. Nel vajo che va a Campodalbero abitava la bella anguana Ittele. Insomma sulle nostre montagne le anguane non mancano.
Il significato etimologico di anguana pare abbastanza chiaro, indica una sirena abitatrice delle acque, e si cita, a questo proposito, il provenzale aigua > acqua. Non è questione da poco se pensiamo a quanto le sorgenti fossero, un tempo, particolarmente preziose per la vita stessa. Ma il professor Volpato ricorda anche la possibilità di far derivare il sostantivo da
anguis> serpe, cui il lemma veronese àngià rimanda chiaramente, non per nulla questi esseri femminili sono spesso ricordati con un serpente attorcigliato al corpo a mo’ di cintura.
Garobbio le chiama «Le donne delle acque». Alessandro Norsa ne coglie la dimensione diacronica ed evolutiva, svelando che si tratterebbe di «echi di figure della tradizione precristiana connesse al culto di entità femminili». Enrico Gleria avverte che «spesso si confondono con le ondine delle saghe nordiche e scandinave o con le ninfe di pantheon greco romano». Per Piero Piazzola a Campofontana abitavano delle anguane che prendevano il nome locale di “Bele butele”, una “razza” tutta particolare di figure del fantastico. Domenico Luciano Nordera, che assimila tout court le anguane alle “Beate Genti”, così le definisce: «sono degli esseri femminili che vivono in un regno intermedio tra i vivi e i morti, tra la notte e il giorno». Quanto ai comportamenti, essi sono quanto mai vari, complessi e talvolta contradditori. Vediamone alcuni.
Piazzola si concentra sulle anguane di Campofontana: erano donne bellissime, uscivano dalle caverne al suono serale dell’Ave Maria e vi rientravano con l’Ave Maria del mattino, aiutavano le donne del paese soprattutto a fare il bucato ma solo se la
biancheria e la lana erano bianche, tenevano pulite le sorgenti, vestivano sempre di nero, durante la notte tendevano delle lunghissime corde tra un monte e l’altro delle valli e vi stendevano il bucato, talvolta camminavano sulle corde lanciando acute grida per spaventare gli uccelli che avessero avuto intenzione di posarsi sulla biancheria, erano donne buone ma particolarmente permalose, attiravano gli uomini per renderli schiavi e via dicendo. L’elenco dei loro originali modi di fare può essere ancora lungo, ma penso di poterlo terminare qui, sia perché attraverso la leggenda dell’anguana Seralda vedremo qualche altro aspetto riguardante la categoria, sia perché parlando delle Fade troveremo un’altra occasione per ritornare sul tema.
Il comune di Crespadoro, di cui Durlo fa parte, presenta un'estensione molto ampia, ma scarsamente abitata, perché composto, in maggior parte, da lussureggianti boschi e scoscesi pendii; è inoltre posto al confine tra la provincia di Verona ad ovest e la provincia di Trento a nord. Il territorio comunale si può suddividere in tre zone. Il fondovalle dove si trova il capoluogo posto ad un'altezza tra i 363 e i 510 m s.l.m.; l'altezza delle frazioni situate tra gli 800 e i 1000 m s.l.m (Marana 800 m.s.l.m; Durlo 845 m s.l.m; Campodalbero 900 m s.l.m); e i punti più alti delle vette del comune (Cima Marana, Telegrafo, Zevola, Gramolon, Campodavanti, Campetto) che arrivano a toccare i 1980 m s.l.m nel monte Grammolon nasce il torrente Chiampo. Superato il passo della Scagina si arriva in val Frasele e poi al passo della Lora dove il comune di Crespadoro confina con la provincia di Trento. Il territorio si presenta molto ricco dal punto di vista idrico: moltissimi sono i ruscelli che scorrono e che vanno ad alimentare tutte le fontane sparse per le contrade. I principali corsi d'acqua sono il Righello, la Val Mora, il Còrbiolo e Valbianca, vanno tutti a confluire nel torrente principale il torrente Chiampo, che dà il nome alla Valle. Il comune di Crespadoro è uno dei due comuni vicentini che fanno parte dell'area del Parco della Lessinia.
L'origine di Crespadoro va collocata al tempo delle immigrazioni di lavoratori di origine tedesca, ai quali fu assegnato un "manus" di terra incolta. Nel 1287 il Vescovo Bartolomeo Della Scala cedette dei territori dei Lessini a delle popolazioni di origine tedesca con l'onere della decima; questa popolazione nel corso del tempo fu detta "Cimbra" perché loro stessi si definivano "tzimbar", che nella loro lingua significava "boscaiolo". Nel Trecento la comunità di Crespadoro fu sottoposta alla signoria scaligera, poi viscontea e il 28 aprile del 1404 insieme con il Comune di Vicenza si sottomise alla Serenissima Repubblica di Venezia: da questo momento iniziò un periodo relativamente stabile per Crespadoro che si impegnava a controllare i confini con il Trentino, per evitare il contrabbando, e in cambio Venezia non riscuoteva le tasse da questo comune. Durante gli otto anni di dominazione austriaca dal 1798 al 1805 non vi furono eventi significativi nella storia della Valle del Chiampo, anche se è testimoniata la permanenza notturna in una locanda di Crespadoro dell'Arciduca d'Austria Giovanni D'Asburgo - Lorena il 23 giugno 1804. Dopo mezzo secolo passato sotto il Regno Lombardo Veneto, nel 1866 il comune fu annesso all'Italia come tutto il Veneto. La prima guerra mondiale non toccò direttamente il territorio di Crespadoro, nonostante la vicinanza con i luoghi delle grandi battaglie: molti però, furono gli abitanti arruolati nell'esercito, di cui una ventina non tornarono a casa perché fatti prigionieri o caduti in battaglia. Molto più tragico invece fu l'esito della seconda guerra mondiale: durante l'estate del 1944 furono eseguite molteplici rappresaglie nel territorio comunale; a luglio l'intera piazza di Crespadoro fu data alle fiamme, sette partigiani, che si erano rifugiati sui monti vicini, furono legati ad un muro della piazza e trucidati dopo un sommario processo avvenuto in una sala del municipio. Ventotto furono dunque le vittime civili e per questo al comune di Crespadoro fu conferita la medaglia d'argento al valor militare.
L'origine di Crespadoro va collocata al tempo delle immigrazioni di lavoratori di origine tedesca, ai quali fu assegnato un "manus" di terra incolta. Nel 1287 il Vescovo Bartolomeo Della Scala cedette dei territori dei Lessini a delle popolazioni di origine tedesca con l'onere della decima; questa popolazione nel corso del tempo fu detta "Cimbra" perché loro stessi si definivano "tzimbar", che nella loro lingua significava "boscaiolo". Nel Trecento la comunità di Crespadoro fu sottoposta alla signoria scaligera, poi viscontea e il 28 aprile del 1404 insieme con il Comune di Vicenza si sottomise alla Serenissima Repubblica di Venezia: da questo momento iniziò un periodo relativamente stabile per Crespadoro che si impegnava a controllare i confini con il Trentino, per evitare il contrabbando, e in cambio Venezia non riscuoteva le tasse da questo comune. Durante gli otto anni di dominazione austriaca dal 1798 al 1805 non vi furono eventi significativi nella storia della Valle del Chiampo, anche se è testimoniata la permanenza notturna in una locanda di Crespadoro dell'Arciduca d'Austria Giovanni D'Asburgo - Lorena il 23 giugno 1804. Dopo mezzo secolo passato sotto il Regno Lombardo Veneto, nel 1866 il comune fu annesso all'Italia come tutto il Veneto. La prima guerra mondiale non toccò direttamente il territorio di Crespadoro, nonostante la vicinanza con i luoghi delle grandi battaglie: molti però, furono gli abitanti arruolati nell'esercito, di cui una ventina non tornarono a casa perché fatti prigionieri o caduti in battaglia. Molto più tragico invece fu l'esito della seconda guerra mondiale: durante l'estate del 1944 furono eseguite molteplici rappresaglie nel territorio comunale; a luglio l'intera piazza di Crespadoro fu data alle fiamme, sette partigiani, che si erano rifugiati sui monti vicini, furono legati ad un muro della piazza e trucidati dopo un sommario processo avvenuto in una sala del municipio. Ventotto furono dunque le vittime civili e per questo al comune di Crespadoro fu conferita la medaglia d'argento al valor militare.
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GLI ORCHI
Nel folclore e nelle fiabe dei paesi europei, specialmente nordici, gli orchi (oger in tedesco) sono mostri antropomorfi giganteschi, crudeli e divoratori di carne umana. L'orco del folclore è correlato a quello della mitologia germanica (orc in inglese); non sempre è possibile distinguere chiaramente queste due figure, sebbene l'orco della mitologia sia in generale un essere descritto come più simile a una bestia o a un demone. Gli orchi nel fantasy sono talvolta ispirati alla figura dell'orco del folclore (per esempio gli orchi di Piers Anthony), e talvolta a quella dell'orco della mitologia (gli orchi di J. R. R. Tolkien); in alcuni casi, fanno riferimento a elementi tipici di entrambe queste figure.
Sull’onnipresenza dell’orco nell’immaginario lessinico c’è poco da dubitare. Anche nella mia infanzia c’è un “Vajo dell’Orco”, proprio dietro la mia contrada, nel quale talvolta ci si recava a caccia. Quanti altri vaj dell’orco ci siano in giro in Lessinia non saprei dire, di sicuro molti. Probabilmente ogni comunità aveva un bosco infestato dagli orchi, le cui “funzioni” erano necessarie ovunque. Questo essere preferiva la notte, quando si metteva in cammino con un sacco sulle spalle alla ricerca di bambini da “portar via” e mangiarseli poi con calma. Bambini disubbidienti, si capisce, che magari tardavano a ritornare a casa alla sera.Quanti orchi, poi, annovera il folklore lessinico! Ci sono i sette orchi del “Vajo delle Ortighe”, i quali, gelosi della ricchezza detenuta dalle fade, pensano bene di soffocare le malcapitate ponendo all’ingresso della loro grotta un enorme albero e dandogli fuoco. Ma il piano fallisce miseramente decretando, per i sette orchi, una figura pellegrina e non deponendo per una grande intelligenza di questi esseri fantastici. E non è l’unica situazione in cui l’orco fa una misera figura. Monsignor Giuseppe Cappelletti racconta che una volta un orco balla e canta sopra un ponticello sul torrente Fraselle finché il ponticello crolla facendo finire il malcapitato in acqua, con pochissimo onore e smentendo gli attributi magici o diabolici generalmente attribuitigli. Ci sono ancora i due orchi dei Marognoni i quali vengono alle mani tra loro per stabilire di chi dei due fosse la responsabilità della fuga di un malgaro appena catturato. Ne nasce un gigantesco scontro con botte da orbi tanto che batti di qua, batti di là, un intero costone roccioso si sbriciola dando origine appunto alla località Marognoni.
Come per le anguane, anche gli orchi presentano una duplicità di comportamenti. Talvolta aiutano gli uomini, come è accaduto a quel marito che credeva alla malattia della moglie e per questo si reca a Recoaro a prendere l’acqua che avrebbe risolto il malanno. Ma, grazie all’aiuto di un orco buono, il marito smaschera l’infedeltà della donna e «così la moglie è stata guarita con un bastone di faggio senza bere l’acqua di Recoaro». L’orco è anche un incontenibile trasformista può assumere le sembianze di scrofa, cavalla, pecora, basilisco, vento, anitra, quercia, ragazza,… E anche di un umano, naturalmente. Insomma davvero un gran imbroglione! E, a proposito di località e toponimi, il sito più noto è il Sengio dell’Orco, impropriamente chiamato “Fungo di Camposilvano” a causa della sua forma che ricorda un gigantesco fungo. Ma la tradizione folkloristica racconta un’altra storia, racconta che quel particolare masso lì è stato trasportato da un orco per consentire alle fade di fissare un capo della loro strategica corda (l’altro veniva fissato al Corno Barila, sul versante opposto della valle, in quel di Campofontana). Così fade e anguane potevano, nottetempo, stendere i panni ad asciugare. Una bella storia di collaborazione tra esseri mitici, per una volta.
Veramente, una caratteristica dell’orco è proprio la suo forza prodigiosa che faceva tutt’uno con le sue dimensioni gigantesche, tali da consentirgli di stare in piedi a cavallo di una valle, o sui tetti delle case. A completare il quadro c’è perfino l’Orco Burlevole che, dopo aver sbarrato il passo a San Carlo Borromeo mentre dalla Lessinia scendeva ad Ala di Trento, scoperto in flagrante dal Santo e messo alle strette dal Segno della croce, si volatilizza con una gran risata assieme ad una rassicurante ammissione di sconfitta ad opera del vescovo: «Sta olta te me l’è fata ti!». Ed era sempre lo stesso Orco Burlevole che faceva sentire il rumore sordo di una lontana frana facendo così spaventare i montanari i quali si accorgevano dell’inganno solo quando udivano proveniente da non si sa dove una grassa risata. Insomma, l’orco poteva contare su un range comportamentale molto ampio che andava dal rapimento dei bambini per mangiarli all’essere egli stesso vittima dell’astuzia femminile. Tutto questo lo colloca in un’area dove il drammatico convive con il comico e il fiabesco, usufruendo così di un’interpretazione popolare capace di mediare esemplarmente tra le opposte forze che agiscono nel mondo, ieri come oggi.
L'Orco Burlevole è il più celebre fra gli orchi che popolano i racconti folkloristici della Lessinia. Di natura del tutto innocua si limita, il più delle volte, a giocare scherzi ai malcapitati. Vive in grotte e case abbandonate ed è descritto come un uomo alto, villoso, dai piedi equini e dalla folta barba brizzolata, ha però il potere di assumere qualsiasi forma, di imitare qualsiasi suono ed anche, a propria discrezione, di mutare la percezione dell'ambiente circostante o del passare del tempo. Quando viene scoperto, o ritiene di essersi divertito a sufficienza, si dissolve in una nuvola di zolfo gridando alle sue vittime, confuse ed impaurite, la storica frase "Te l'o fata!" (Ti ho giocato un bello scherzo).
Si narra che San Carlo Borromeo, transitando per i monti veronesi, capitò nel bel mezzo di una manifestazione dell'orco burlevole e, mediante una benedizione, smascherò l'entità che, fuggendo, dovette affermare "Staolta te me l'è fata Ti!" (Questa volta me l'hai fatta tu).
Nel folclore e nelle fiabe dei paesi europei, specialmente nordici, gli orchi (oger in tedesco) sono mostri antropomorfi giganteschi, crudeli e divoratori di carne umana. L'orco del folclore è correlato a quello della mitologia germanica (orc in inglese); non sempre è possibile distinguere chiaramente queste due figure, sebbene l'orco della mitologia sia in generale un essere descritto come più simile a una bestia o a un demone. Gli orchi nel fantasy sono talvolta ispirati alla figura dell'orco del folclore (per esempio gli orchi di Piers Anthony), e talvolta a quella dell'orco della mitologia (gli orchi di J. R. R. Tolkien); in alcuni casi, fanno riferimento a elementi tipici di entrambe queste figure.
Sull’onnipresenza dell’orco nell’immaginario lessinico c’è poco da dubitare. Anche nella mia infanzia c’è un “Vajo dell’Orco”, proprio dietro la mia contrada, nel quale talvolta ci si recava a caccia. Quanti altri vaj dell’orco ci siano in giro in Lessinia non saprei dire, di sicuro molti. Probabilmente ogni comunità aveva un bosco infestato dagli orchi, le cui “funzioni” erano necessarie ovunque. Questo essere preferiva la notte, quando si metteva in cammino con un sacco sulle spalle alla ricerca di bambini da “portar via” e mangiarseli poi con calma. Bambini disubbidienti, si capisce, che magari tardavano a ritornare a casa alla sera.Quanti orchi, poi, annovera il folklore lessinico! Ci sono i sette orchi del “Vajo delle Ortighe”, i quali, gelosi della ricchezza detenuta dalle fade, pensano bene di soffocare le malcapitate ponendo all’ingresso della loro grotta un enorme albero e dandogli fuoco. Ma il piano fallisce miseramente decretando, per i sette orchi, una figura pellegrina e non deponendo per una grande intelligenza di questi esseri fantastici. E non è l’unica situazione in cui l’orco fa una misera figura. Monsignor Giuseppe Cappelletti racconta che una volta un orco balla e canta sopra un ponticello sul torrente Fraselle finché il ponticello crolla facendo finire il malcapitato in acqua, con pochissimo onore e smentendo gli attributi magici o diabolici generalmente attribuitigli. Ci sono ancora i due orchi dei Marognoni i quali vengono alle mani tra loro per stabilire di chi dei due fosse la responsabilità della fuga di un malgaro appena catturato. Ne nasce un gigantesco scontro con botte da orbi tanto che batti di qua, batti di là, un intero costone roccioso si sbriciola dando origine appunto alla località Marognoni.
Come per le anguane, anche gli orchi presentano una duplicità di comportamenti. Talvolta aiutano gli uomini, come è accaduto a quel marito che credeva alla malattia della moglie e per questo si reca a Recoaro a prendere l’acqua che avrebbe risolto il malanno. Ma, grazie all’aiuto di un orco buono, il marito smaschera l’infedeltà della donna e «così la moglie è stata guarita con un bastone di faggio senza bere l’acqua di Recoaro». L’orco è anche un incontenibile trasformista può assumere le sembianze di scrofa, cavalla, pecora, basilisco, vento, anitra, quercia, ragazza,… E anche di un umano, naturalmente. Insomma davvero un gran imbroglione! E, a proposito di località e toponimi, il sito più noto è il Sengio dell’Orco, impropriamente chiamato “Fungo di Camposilvano” a causa della sua forma che ricorda un gigantesco fungo. Ma la tradizione folkloristica racconta un’altra storia, racconta che quel particolare masso lì è stato trasportato da un orco per consentire alle fade di fissare un capo della loro strategica corda (l’altro veniva fissato al Corno Barila, sul versante opposto della valle, in quel di Campofontana). Così fade e anguane potevano, nottetempo, stendere i panni ad asciugare. Una bella storia di collaborazione tra esseri mitici, per una volta.
Veramente, una caratteristica dell’orco è proprio la suo forza prodigiosa che faceva tutt’uno con le sue dimensioni gigantesche, tali da consentirgli di stare in piedi a cavallo di una valle, o sui tetti delle case. A completare il quadro c’è perfino l’Orco Burlevole che, dopo aver sbarrato il passo a San Carlo Borromeo mentre dalla Lessinia scendeva ad Ala di Trento, scoperto in flagrante dal Santo e messo alle strette dal Segno della croce, si volatilizza con una gran risata assieme ad una rassicurante ammissione di sconfitta ad opera del vescovo: «Sta olta te me l’è fata ti!». Ed era sempre lo stesso Orco Burlevole che faceva sentire il rumore sordo di una lontana frana facendo così spaventare i montanari i quali si accorgevano dell’inganno solo quando udivano proveniente da non si sa dove una grassa risata. Insomma, l’orco poteva contare su un range comportamentale molto ampio che andava dal rapimento dei bambini per mangiarli all’essere egli stesso vittima dell’astuzia femminile. Tutto questo lo colloca in un’area dove il drammatico convive con il comico e il fiabesco, usufruendo così di un’interpretazione popolare capace di mediare esemplarmente tra le opposte forze che agiscono nel mondo, ieri come oggi.
L'Orco Burlevole è il più celebre fra gli orchi che popolano i racconti folkloristici della Lessinia. Di natura del tutto innocua si limita, il più delle volte, a giocare scherzi ai malcapitati. Vive in grotte e case abbandonate ed è descritto come un uomo alto, villoso, dai piedi equini e dalla folta barba brizzolata, ha però il potere di assumere qualsiasi forma, di imitare qualsiasi suono ed anche, a propria discrezione, di mutare la percezione dell'ambiente circostante o del passare del tempo. Quando viene scoperto, o ritiene di essersi divertito a sufficienza, si dissolve in una nuvola di zolfo gridando alle sue vittime, confuse ed impaurite, la storica frase "Te l'o fata!" (Ti ho giocato un bello scherzo).
Si narra che San Carlo Borromeo, transitando per i monti veronesi, capitò nel bel mezzo di una manifestazione dell'orco burlevole e, mediante una benedizione, smascherò l'entità che, fuggendo, dovette affermare "Staolta te me l'è fata Ti!" (Questa volta me l'hai fatta tu).