Questo post lo tenevo nel cassetto da un po'. Ma credo possa far riflettere sulla nostra reazione a fronte della pandemia che, volenti o nolenti, dobbiamo ancora subire.
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Gli effetti del riscaldamento globale sono già visibili, specialmente in alcune regioni del pianeta che per la loro vulnerabilità ai cambiamenti in corso vengono spesso definite "sentinelle" del clima che cambia. Tra queste spiccano le regioni montane di alta quota. Le montagne, infatti, stanno rispondendo in maniera più intensa e rapida ai cambiamenti climatici e ambientali, con effetti facilmente percepibili da chiunque (pensiamo al ritiro dei ghiacciai o alla fusione anticipata della neve) ed altri meno evidenti, ma altrettanto presenti e importanti per le loro ripercussioni, come il declino della biodiversità e lo sfasamento degli ecosistemi di alta quota. Anche se ogni regione montana ha le proprie specificità, ad esempio date dalla latitudine cui si trova e dai regimi di circolazione e climatici cui è soggetta, le montagne in generale possono essere considerate come un hot-spot climatico. Negli ultimi decenni la temperatura è aumentata di più, di circa il doppio, in montagna di quanto sia avvenuto a livello globale (dal 1850 circa la Terra si è scaldata di un po' più di 1°C, in media). Con quali conseguenze? Come si accennava, gli effetti più evidenti riguardano la diminuzione della copertura nevosa (sia come estensione e spessore che come permanenza) e la fusione dei ghiacciai, che sta avvenendo a ritmi così incalzanti da essere visibile nell'arco della nostra vita. Un esempio su tutti preso dalle Alpi italiane è quello del ghiacciaio della Marmolada: se il suo tasso di riduzione procederà in futuro con lo stesso passo degli ultimi decenni (in soli 10 anni questo ghiacciaio ha ridotto il suo volume del 30% mentre la diminuzione areale è stata del 22%), il ghiacciaio della Marmolada potrà essere scomparso nel giro dei prossimi 25-30 anni anche se le temperature, tale è il disequilibrio che si è instaurato con il clima. Le montagne costituiscono le torri d'acqua per le regioni di pianura, serbatoi da cui arriva l'acqua utilizzata a valle per l'uso potabile, agricolo o industriale e per la produzione di energia. I cambiamenti in corso stanno modificando molti aspetti del ciclo idrologico montano con importanti effetti sulla disponibilità di risorsa idrica. Con l'anticipo del periodo di fusione dovuto all'aumento della temperatura, ad esempio, c'è il rischio che non ci sia già più neve da fondere proprio nel periodo in cui c'è più richiesta di acqua a valle, durante l'estate calda e con poche precipitazioni. Meno visibili ma non meno importanti sono tutte le modifiche che stanno avvenendo nella flora e fauna degli ecosistemi montani in risposta al riscaldamento o ad altri impatti antropici, come l'uso del suolo. ![]() Gli ecosistemi d'alta quota sono caratterizzati dalla presenza di molte specie endemiche, ovvero specie che, nel corso del tempo, hanno sviluppato un loro percorso evolutivo negli ambienti montani alle cui condizioni, pur difficili ed estreme, hanno imparato ad adattarsi. Queste stesse specie possono essere fortemente (e negativamente) influenzate dall'aumento di temperatura e dai cambiamenti nei regimi idrici che stanno avvenendo in montagna, proprio perchè, adattate alle stesse temperature ed alla eterogeneità dell'ambiente montano, esibiscono una limitata capacità di adattamento a fronte di un cambiamento repentino. Con l'aumento della temperatura, molte specie, sia vegetali che animali, tendono oggi a migrare verso le quote più elevate per trovare condizioni ambientali più vicine a quelle cui erano abituate. Gli animali, in particolare, rispondono in modo più rapido alla colonizzazione di regioni a quote maggiori, almeno finchè la montagna non finisce... La risposta in termini di spostamento verso l'alto della vegetazione è più lenta e per certi versi più complessa, perché si aggiungono altri fattori di cambiamento a quello unicamente climatico. I cambiamenti nell'uso del territorio, nella fattispecie l'abbandono dei pascoli in quota, giocano un ruolo fondamentale nel determinare la risalita verso l'alto della linea degli alberi e degli arbusti, occupando (o rioccupando) le aree prima adibite al pascolo. ![]() L'aumento di temperatura in montagna può generare anche uno sfasamento tra diverse componenti, vegetali e animali, che costituiscono l'ecosistema stesso. Questo avviene quando queste componenti non rispondono in maniera sincrona all'aumento della temperatura. Cosa succede, ad esempio, a fronte di una fioritura anticipata delle erbe montane, agli animali che di queste erbe si nutrono? Facciamo un esempio. Nel Parco Nazionale Gran Paradiso, in cui stambecchi e camosci vengono censiti regolarmente una volta all'anno da più di sessant'anni, si ha evidenza di come il cambiamento di clima possa avere un impatto sull'ecosistema montano. La popolazione adulta degli stambecchi è controllata dalla copertura nevosa invernale: la popolazione cala negli inverni con tanta neve a causa della maggior difficoltà nel reperire cibo; la popolazione è invece più numerosa negli inverni con meno neve al suolo. Dopo il 1997, tuttavia, gli inverni hanno continuato ad essere poco nevosi, ma la popolazione di stambecchi ha continuato a diminuire, essenzialmente a causa del crollo nel tasso di sopravvivenza dei piccoli. Assieme ad altre, una possibile spiegazione chiama in causa la fioritura anticipata e la modifica della vegetazione alpina dovuta all'aumento delle temperature e alla fusione precoce della neve. Gli stambecchi danno alla luce i piccoli in giugno e luglio; se la vegetazione anticipa la fioritura è possibile che le madri non trovino erbe adatte e nutrienti per produrre latte di buona qualità per far crescere i piccoli robusti abbastanza da superare il primo inverno. Ma perchè il riscaldamento in montagna è amplificato rispetto ad altre regioni? Una delle cause principali è la progressiva diminuzione della copertura nevosa e dei ghiacciai... che allo stesso tempo è una conseguenza dell'aumento di temperatura. Cerchiamo di capire meglio questa catena circolare: la diminuzione delle aree coperte da neve e ghiaccio fa si che il suolo riesca ad assorbire la frazione di radiazione solare che altrimenti si sarebbe riflessa e quindi si scaldi di più di quanto non farebbe se ghiaccio e neve fossero presenti. Quello appena descritto è noto come "ciclo di retroazione ghiaccio-albedo" -l'albedo è la capacità di una superficie di riflettere la radiazione solare ed è una delle retroazioni positive (in quanto rinforzanti) in atto nel sistema climatico. E' essenziale migliorare le nostre conoscenze sui cambiamenti che stanno avvenendo negli ecosistemi di alta quota, sulle loro cause, sui processi coinvolti, sia attraverso reti di monitoraggio sia sfruttando i dati da satellite, e affiancare alle misure simulazioni di modelli climatici sempre più avanzati per determinare con un certo anticipo l'evoluzione che ci dobbiamo aspettare per i prossimi decenni e preparare adeguate misure di prevenzione, adattamento e mitigazione. Fioriscono i germogli
le rose variopinte catturano lo sguardo, la verde acqua del ruscello si confonde con il verde degli alberi che sono lungo il ruscello... l'acqua scorre senza placarsi, come il destino continua a scorrere e fa tutto lui. La brezza di maggio riempie i miei polmoni, mi vengono in mente nuove idee, nuovi pensieri e osservo le mie emozioni con distacco. Sono sola in questo istante, medito, rifletto e concludo le mie ipotesi. La primavera mi ispira, con le sue fioriture, i suoi colori e i rumori della natura. Osservo con attenzione lo scoiattolo che velocissimo e agile salta sull'altro ramo per poi nascondersi fra le chiome degli alberi. Da lontano si sente il fischio della marmotta sentinella.... La natura è splendida con i suoi misteri e mi procura sempre sorprese e stupore. Anche di fronte a un tramonto particolare, osservo i colori e il loro accostamento. Sembra dipinto da un pittore, invece sono i raggi del sole che creano effetti sorprendenti e speciali. Tutto incomincia a tacere, diventa buio e gli animali si ritirano e si nascondono per la notte.... ![]() Il Cammino Iacopeo d’Anaunia, tra arte, storia e montagna. Mettere i propri passi gli uni davanti agli altri è sempre stato, per l'uomo, oltre che necessità per le esigenze della vita di tutti i giorni, anche motivo di gioia, raccoglimento in sé, nella natura e nella storia scritta in ciò che lo circonda, molto spesso invisibile agli occhi del Passator fuggente, l'Inseguitore del record e della prestazione, chi fa del tempo non impiegato la ragione della propria vita e chi ritiene adrenalinico solo ed unicamente il confronto e la sfida alle leggi della fisica e dell'anatomia. Io, e come me molti altri, cerchiamo nel camminare un piacere centellinato con lentezza attraverso la nostra giornata ed il territorio che ci circonda. Nell'ottica del “camminare Lento” e sulle tracce storiche degli antichi viandanti sono nati, in questi ultimi anni, vari Cammini, Vie, Strade che, più o meno, si rifanno, per quanto possibile, ai tracciati originari percorsi dai Pellegrini. Le mete sono da sempre i grandi Santuari, le città simbolo della fede (ogni religione ha avuto comunque un suo modo di camminare, un suo cerimoniale, un suo “durante”) e quelle che sono state la culla dei grandi Santi, nel caso del Cristianesimo Santiago de Compostela, Assisi, Loreto, Gerusalemme, Roma. Le motivazioni che spingevano gli antichi “deambulanti del Sacro” erano molteplici. Gente di ogni ceto, d'ogni età sfogava la propria religiosità o la voglia di essa incamminandosi verso le lontanissime mete pellegrine, per l'epoca realmente dall'altra parte del mondo, fuori del tempo e dello spazio. Il pellegrinaggio è comunque una forma di religiosità vecchia come l'uomo. Le componenti principali, come se il cammino verso il Dio che è in ognuno di noi fosse la ricetta di una minestra, sono essenzialmente tre: la strada, la meta sacra e la ricerca di un pezzo mancante dentro, raggiungibile tramite il perdono od una grazia. Nelle grotte di Lascaux e Rouffignac orme di adolescenti di 20 mila anni fa tracciavano marce d'iniziazione addirittura preistoriche. Anche tra gli indiani d'America e in molte tribù africane molto spesso la maggiore età coincideva con l'obbligo di un viaggio-pellegrinaggio nella savana, nella foresta o sui pendii di qualche montagna sacra, a ricercare visioni o trofei che dimostravano il valore del tuo spirito interiore. Così quando nel Medioevo il fenomeno esplose, l'identikit del pellegrino diventò un simbolo. Di uomini e donne che rischiavano la vita per riagguantarsi. Di “viaggi” così intensi da meritare le virgolette (e si che il “fumo” non era stato ancora importato). Perché da che mondo è mondo “per belli divenire bisogna soffrire”. A maggior ragione, se l'avvenenza agognata è quella interiore. Il pellegrinaggio verso Santiago de Compostela cominciò nel IX sec. con la scoperta del sepolcro di San Giacomo Maggiore, evangelizzatore della Spagna. L'apostolo morì in Palestina ma secondo la leggenda arrivò coi suoi fidi in barca nella terra che aveva evangelizzato e ivi fu tumulato. L'immane afflusso sulla sua tomba conseguente a quella scoperta trasformò il capoluogo galiziano in un sinonimo di pellegrinaggio. Anche Dante vi contribuì. Nella Divina Commedia san Giacomo era “il barone per cui...si visita Galizia” (Par. XXV, 18) e “non s'intende peregrino se non chi va verso la casa di San Jacopo” (Vita Nuova). I pellegrini giacobini (o iacopei) si distinguevano dalla conchiglia, la panciuta capasanta a pettine di Venere tipica dell'Atlantico, ancora oggi utilizzata come vessillo per coloro che intraprendono il “sacro cammino”. Nel 2007 un gruppo di pellegrini reduci dal Cammino di Santiago decide di fondare l'AACS ossia l'Associazione Anaune amici del Cammino di Santiago, un gruppo di persone di diversa estrazione sociale, provenienti da varie zone non solo del Trentino ma d’Italia, sensibili alla cultura del camminare ed alla riscoperta della storia, dell’arte e delle tradizioni del territorio. Lo scopo dell’Associazione, fissato nello statuto della stessa, è quello di portare anche altri a fare la stessa esperienza e, a livello locale, di favorire la cultura del camminare riscoprendo il proprio territorio, la propria storia, la propria cultura. Nasce così il Cammino Iacopeo d'Anaunia. La devozione verso San Giacomo è di antica memoria da queste parti. Già nel 1208 è documentato un pellegrinaggio di un pievano clesiano e, dopo di lui altri cristiani della valle e del Tirolo partirono affrontando i mille pericoli del viaggio fino alla Galizia. E partendo dai luoghi più remoti cercavano nei monasteri, negli ospitali, negli eremi che trovavano lungo il cammino un attimo di ristoro fisico e spirituale alle loro fatiche. Anche per riscoprire questi luoghi è nato il Cammino. La gente della Val di Non ha sempre dato prova di una spiccata fede e quindi il materiale ancora esistente sul territorio anaune non mancava di certo. Occorreva solo un filo conduttore, una ""via" che unisse i gioielli sacri antichi e moderni sfruttando, quanto più possibile, vie secolari o comunque secondarie. Lavoro non facile visto che la moderna viabilità e la spiccata tendenza del contadino (non solo quello noneso) a diffidare di chi passa tangente i propri campi e coltivi ha fagocitato l'idea della strada di tutti usata solo per i piedi a favore di una mobilità votata alla corsa verso le mete della vita di tutti i giorni e la proprietà privata. Attenti studi storici poi riportati sul territorio hanno tracciato alfine otto tappe (sette più una per un giro più breve). Il tracciato sciorina le testimonianze di una fede viva seppur discreta, con pregevolissimi affreschi medievali, altari di pietra antica e stupende manifatture sacre. Tutto questo quasi perfettamente conservato quasi che il tempo avesse tenuti nascosti alla storia quei tesori, per mostrarli agli occhi dei pellegrini del terzo millennio. Alcune di queste piccole chiese sembrano solamente curiosità architettoniche che però non sfigurano assolutamente davanti alle moderne linee delle costruzioni sacre dell’ultimo mezzo secolo. Il Cammino, sforando con una tappa in Val di Sole, si conclude idealmente al Santuario di S.Romedio, il pellegrino che divenne eremita forse più famoso della Val di Non e del Trentino, la cui storia terrena si confonde nelle nebbie del tempo e della leggenda. La sua figura è legata all'animale che da sempre lo accompagna in ogni ritratto, l'orso, ora più che mai in auge grazie al controverso programma di ripopolamento che ha portato i plantigradi presenti in Trentino a numeri che non tarderanno, se il ritmo resterà quello degli ultimi anni, a raggiungere le tre cifre. Uno dei plantigradi è ospitato nel recinto sotto il Santuario, per la gioia di grandi e bambini che preferiscono vederlo qui in cattività che trovarselo davanti sulle strade ed i sentieri delle montagne. Attorno al fervore artistico-architettonico il calore (si avete letto bene, calore) dei panorami e della gente d'Anaunia che spesso attonita osserva questo via vai di gente con le scarpe impolverate e la faccia sudata, con la conchiglia sullo zaino che invece di pesare, rende più leggero il cammino, quasi fosse vessillo d’appartenenza Presentato presso gli enti turistici e imprenditoriali competenti sia Anauni che Provinciali è stato a tutta prima snobbato, ma sta ora cominciando a fare proseliti e numeri che stanno interessando gli enti suddetti. Se volessimo metterla in termini scolastici il Cammino coinvolge una pluralità di materie: dalla ginnastica in primis, alla storia, alla religione, alla geografia passando per l'etnografia, la sociologia, l’arte (gli amici dell’Associazione Anastasia sono a disposizione per gruppi e su prenotazione ad aprire gli scrigni dell’arte d’Anaunia a chi lo volesse) e perché no, alla gastronomia, assaporabile nelle molte strutture familiari della valle. Cultura a tutto tondo quindi. Il modo migliore per affrontare la fatica è, ovviamente, in compagnia di chi tutto questo ha ideato (l’Associazione appunto) e che sicuramente farà apprezzare al neofita, il piacere “dell'andar scoprendo” e del “camminare lento”. Negli ultimi tempi, complice forse la crisi, la costante perdita dei valori tradizionalmente accettati che portano ad un disorientamento nella generazione dei cosiddetti post-sessantottini (a cui credo a buon diritto di appartenere) e ad un generale aumento dei ritmi di lavoro e del conseguente stress, c’è la riscoperta, oltre che della dimensione rurale e della riappropriazione del proprio tempo anche di una spiritualità che porti l’anima ad interagire maggiormente con il proprio corpo. I Cammini quindi prendono vita lungo le strade che appartenevano al mondo antico, divenuto moderno a volte inconsapevolmente. Gli amici del Cammino d’Anaunia (Paolo, Donato, Remo, Italina, Guglielmo, Aldo, Marta tanto per citarne qualcuno) organizzano, ormai da qualche anno ed in collaborazione con l’Agenzia Etli di Fondo, l’uscita sui percorsi, di solito articolata su tre giorni rubati alla pausa che di solito accompagna il “maggio odoroso”, praticamente inserita tra la prima domenica del mese e il primo maggio. E' quindi possibile percorrere, in due riprese, accompagnati dagli Amici del Cammino, almeno sei delle 8 tappe che lo compongono. Ecco la descrizione, in sintesi, delle 8 tappe, percorse l'anno scorso.
Ho vagato molto, spesso a vuoto. E lo farò ancora perché credo sia insito nell’uomo quel masochismo latente che lo costringe a peregrinare in cerca di qualcosa che nemmeno lui conosce, forse di sé stesso, anzi sicuramente di sé stesso. Siamo tutti psicologi autodidatti che cercano il proprio “io” più nascosto tra le pieghe del mondo e non sdraiati su una chaise longue da psichiatra. Ho percorso il Cammino Iacopeo d’Anaunia cercando vicino a casa quello che, per motivi di tempo e di lavoro, non ho potuto cercare altrove, nei luoghi reputati al Pellegrinaggio vero e proprio. Cosa ho trovato? E soprattutto, ho trovato? Ho trovato la montagna, ho trovato la gente, ho trovato la storia, ho trovato mani gentili e parole buone, ho trovato vecchie credenze e storie, ho trovato sorrisi e sguardi sospettosi insieme a sudore e polvere. Ciò che cercavo? Credo di sì, soprattutto mi sono reso conto che ciò che cercavo era già in mio possesso o comodato d’uso. Ho trovato l’uomo che è in me e il Dio che è negli altri. E forse ambedue le cose contemporaneamente. Abbiamo demandato la formulazione di domande e la ricerca di risposte a psichiatri, sacerdoti, politici quando bastava guardarsi attorno e mettersi per un momento negli occhi di chi ci sta davanti, del prossimo. Non voglio fare della filosofia spicciola, anche perché non ne ho le basi culturali quindi chiudo in fretta, anche per non annoiare ulteriormente chi mi sta leggendo. Il Cammino, come tutti i cammini (leggi anche Vite) è mutevole e costante, lungo e breve, utile o inutile, veloce o lento, dolce o salato, doloroso o appagante ma comunque vale la pena di affrontarlo sempre perché, come diceva un noto poeta romano “La vita è adesso, il sogno è sempre”. Enrico Menestrina Il mio primo Cammino..... https://enricotrektrailcieloeilmondo.weebly.com/cammino-iacopeo-danaunia-tutta-lavventura.html L'articolo in PDF ![]()
Succede a volte
Succede a volte nelle sudate strade che sconosciuti passi vi convergano all'unisono. S'affiancano per brevi attimi destini diversi, vite aliene, occhi che guardano con colori diversi la stessa luce. I pensieri pur brevissimi si soffermano gli uni sugli altri e s'incrociano sguardi e forse timidi "Salve!". A volte cumuli di domande si affacciano alla mente per rallentare l'attimo e legare con catene invisibili la libertà dell'altro, il continuare nel suo cammino. Le case nel pomeriggio assolato osservano i viandanti e li invidiano per la loro capacità di allontanarsi gli uni dagli altri. Ma i viandanti questo ignorano e bramano, seppur inconsciamente, il contatto degli occhi, della voce, di una storia compagna della propria. Le mani vorrebbero posarsi su quelle spalle sconosciute e condividere idee, bicchieri di vita, nuvole e giorni assolati, le orecchie aperte al racconto di giorni diversi anche se uguali, problemi altrui per consolare o esorcizzare i propri. Ma il tempo spinge nella nostra schiena ed i nostri affanni ci fanno voltare la testa per dirigerci verso inesistenti méte e lasciare perdere ciò che potrebbe essere per tenere ciò che è: un nostro piccolo mondo di voluta solitudine e indifferenza. Ho provato un giorno a voltarmi indietro fatti pochi passi. Alzando la mano ho fatto per proferire parole, richiami alla condivisione. Ma guardando la schiena dell'altro ho richiuso il mio piccolo mondo ed ho ripreso i miei solitari passi. Enrico Menestrina “Non esistono montagne impossibili, solo uomini che non sono in grado di salirle.” Questo potrebbe essere l’epitaffio, magari lo è, scolpito sulla lapide di Cesare Maestri, il Ragno delle Dolomiti, scomparso di recente. Anch’io unisco la mia silente voce al cordoglio per la scomparsa di un grande trentino. L’alpinismo è egoismo, spavalderia, egocentrismo intorno a figure di uomini eccezionali, inutile volerlo negare, che sacrificano la loro vita alla conquista dell’inutile. Ma è altresì gesto atletico, coraggio, apparente indifferenza con cui le forti mani abbarbicano la roccia o il ghiaccio, sfida alle leggi della fisica, andate e ritorni da luoghi riservati in passato solo alla presenza degli dei. Le persone che amano la montagna e che si sentono inermi di fronte ad essa e quelle per cui le montagne sono raggiungibili solo con gli impianti altrimenti sono impossibili vedono Cesare Maestri ed i grandi alpinisti come persone al di fuori della realtà, semidei che non possono morire se non cadendo da una parete o colpiti da terribile morbo. Io povero escursionista che mi limito a deambulare sui sentieri tracciati da mani esperte ammiro questi uomini ed allo stesso tempo li invidio, incapace (per prove effettuate e per paura) di emularli. Cesare è morto nel suo Trentino, in un letto d’ospedale, accudito ed amato dalla sua famiglia come pochi alpinisti di fama possono sperare. Ok Cesare, ti aspettano ancora strade e vette, dove andrai d’ora in poi, tracciale per noi ed aspettaci, con calma. Riporto l’articolo, con foto e video, di Montagna TV. “Non esistono montagne impossibili. Esistono solo uomini che non sono capaci di salirle.” Cesare Maestri Soprannominato “il Ragno delle Dolomiti” Cesare Maestri è stato un innovatore in campo alpinistico. Uno dei primi ad affrontare difficili itinerari di sesto grado, il più alto del periodo, in solitaria sia in salita che in discesa. Scalatore, scrittore e partigiano ha preso parte alla guerra di resistenza combattendo attivamente sulle montagne trentine. Escluso dalla spedizione italiana al K2 del 1954 per un’ulcera allo stomaco poi rivelatasi inesistente, la sua intensa carriera alpinistica ha contribuito a dare uno slancio alla pratica trovando soluzioni a problemi e nuove modalità di contatto con la montagna. Convinto sostenitore di un approccio moderno alle difficoltà oltre ad allenarsi ha contribuito allo sviluppo di nuovi materiali per l’arrampicata. La vita Nato a Trento il 2 ottobre 1929 da oltre quaranta anni vive a Madonna di Campiglio dove per anni ha gestito il negozio “La bottega di Cesare Maestri”. Rimasto orfano di mamma a soli 7 anni cresce, insieme ai suoi due fratelli, sotto l’educazione del papà, Toni Maestri: un attore girovago, come lo era anche la mamma Mariarosa, stabilitosi grazie a un impiego nella pubblica amministrazione. La loro è una vita tranquilla che viene scombussolata, come quella di un po’ tutti, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il padre Toni viene condannato a morte per attività antiaustriaca così scappano, prima a Ferrara, poi a Trento. Qui Cesare, appena quattordicenne, sceglie di salire tra le montagne amiche unendosi alle truppe partigiane. Terminata la guerra il padre lo manda a Roma per fargli studiare recitazione, come hanno fatto anche i suoi fratelli. Anna, la sorella, diventerà un’affermata attrice mentre Giancarlo, il fratello, diventerà direttore del doppiaggio dando voce, tra gli altri, a Sean Connery. Cesare regge due anni a Roma, periodo in cui partecipa attivamente alle iniziative del Partito Comunista Italiano, quindi torna a Trento dove scopre il mondo dell’arrampicata. La montagna diventa il suo antistress, un modo per distrarre la mente dai ricordi accumulati negli anni di guerra. Muore il 19 gennaio 2021, all’età di 91 anni. L’alpinismo In breve tempo la passione per la scalata di Cesare Maestri diventa totalizzante. I progressi sono immediati e la prima grande impresa non si fa attendere per molto tempo. Nel 1951, a 22 anni, si trova ai piedi del Croz dell’Altissimo dove sale in solitaria la via Detassis-Giordani. Per la carriera alpinistica del giovane trentino è un punto di non ritorno, da questo momento in poi inizia infatti una lunga sequenza di imprese solitarie che lo vedono impegnato sulle più alte difficoltà delle Dolomiti. Nel 1952 ritorna sul Croz dell’Altissimo dove ripete la via Dibona, quindi si sposta sulla Comici al Sassolungo e ancora sulla Civetta dove sale lungo la via Solleder. Sempre nello stesso anno consegue il brevetto di guida alpina. Nel 1953 sale la via delle Guide al Crozzon di Brenta e la Detassis alla Brenta Alta. L’anno successivo realizza la traversata solitaria dalla Cima d’Ambièz alla Bocca del Tuckett concatenando sedici cime della catena centrale in meno di 24 ore. Un exploit unico per il periodo. Nel 1955 sul Sass de Luesa ripete in solitaria la via Vinatzer, quindi la Oppio al Croz dell’Altissimo. Nel 1956 ritorna sul Crozzon di Brenta dove percorre in discesa e in solitaria la via delle Guide. La discesa solitaria di vie di grado elevato sarà una delle caratteristiche del Ragno delle Dolomiti. Tra le importanti vie scese da Maestri va sicuramente citata la Solleder al Sass Maor. Due importanti realizzazioni risalgono ancora al 1956: la via Micheluzzi al Piz Ciavazes e la prima solitaria invernale dello spigolo nord del Cimon della Pala. Nel corso della sua attività alpinistica Cesare Maestri ha portato a termine circa 3500 salite di cui almeno un terzo in solitaria. La sua passione per la montagna l’ha spinto a continuare anche in età matura. All’età di 69 anni ancora pratica l’arrampicata in modo eccelso, tanto che nel 1998 ripete la via Maestri-Alimonta alla Rocca di San Leo. Nel 2002 poi organizza, con l’obiettivo di raggiungere la vetta, una spedizione sullo Shisha Pangma di cui fanno parte anche Sergio Martini e Fausto De Stefani. Durante la scalata Maestri viene fermato dal medico della spedizione a causa del mal di montagna. Il Cerro Torre Il Cerro Torre è la montagna che per sempre porterà il nome di Cesare Maestri. Lo scalatore trentino gli si avvicina per la prima volta nel 1958, insieme a una spedizione italo-argentina. Arrivati alla base del Torre il gruppo di Maestri incontra un’altra spedizione italo-argentina di cui fanno parte anche Walter Bonatti e Carlo Mauri. Gli organizzatori delle due hanno degli attriti che portano al ritiro di alcuni sponsor e a gravi problemi nel finanziare la salita. Come conseguenza Maestri non riesce a tentare il Cerro Torre. Rientrato da questa amara esperienza Cesare decide di provarci l’estate successiva, insieme a Toni Egger e Cesarino Fava. A tentare la vetta sono Maestri ed Egger, partono il 28 gennaio sfruttando una finestra di bel tempo che si chiude rapidamente trattenendo i due nella bufera per giorni. Ad attenderli, alla base della parete, c’è Fava. Aspetta fino al 3 febbraio quando finalmente, dalla nebbia intravede la sagoma di Maestri in discesa. Il suo racconto è tragico. Cesare spiega di aver raggiunto la cima con Egger e che durante la discesa, lungo una via diversa, quest’ultimo è stato travolto da una valanga. I tentativi di ritrovare il corpo di Toni Egger sono vani, alcuni resti sono poi stati recuperati nel 1974. Con lui scompare anche la macchina fotografica contenente le foto di vetta. Nonostante questo, il racconto di Maestri non viene messo in dubbio, almeno fino a quando nel 1968 una spedizione inglese affronta il Cerro Torre lungo un itinerario ritenuto più semplice rispetto a quello superato nel 1959. Gli alpinisti non riescono a raggiungere la cima e, una volta rientrati, iniziano a mettere in dubbio la riuscita del progetto di Maestri. A raccogliere queste opinioni la rivista Mountain che ha in seguito analizzato a fondo la salita del 1959 focalizzando l’attenzione su tutti i punti deboli della scalata. In seguito a queste accuse l’alpinista decide di organizzare una nuova spedizione diretta alla montagna. Parte nel 1970 insieme a Ezio Alimonta, Daniele Angeli, Claudio Baldessarri, Carlo Claus e Pietro Vidi. Il gruppo sceglie di affrontare la salita lungo l’inviolato spigolo sud-est. Scalano portando con sé un compressore con cui conficcare nella roccia dei chiodi a espansione, negli ultimi 350 metri ne utilizzano circa 400. Dopo aver ferito la roccia con l’ultimo di questi Maestri si è fermato, senza scalare il fungo di ghiaccio che forma la vetta del Torre. “Non fa veramente parte della montagna, prima o poi cadrà” la motivazione con cui il trentino ha giustificato la scelta. Nella discesa, Cesare è ritornato sui suoi passi rompendo gli ultimi trenta chiodi posizionati e ancorando a uno di essi il compressore, i cui resti sono ancora oggi visibili. Per questo il tracciato è anche chiamato via del Compressore. Per l’utilizzo massivo di chiodi a espansione la salita è stata pesantemente criticata da buona parte della comunità alpinistica internazionale. Allo stesso modo, anni dopo, la salita del 1959, che avrebbe rappresentato anche la prima salita assoluta al Cerro Torre, è stata disconosciuta dal mondo alpinistico per mancanza di prove certe riguardo la linea. Maestri continua a difendere tutt’ora la veridicità della sua versione. Onorificenze
“L’alpinista più bravo è quello che diventa vecchio.”
Cesare Maestr Un dicembre così freddo e nevoso non si era visto da parecchio tempo e anche all’inizio di questo nuovo anno, durante i primi giorni di gennaio, la situazione meteorologica non è mutata, il cielo sta “regalando” altra neve e altro gelo. Così, lungo le strade e nelle piazze innevate del paese oltre che nei negozi, dove i valligiani incidentalmente si incontrano e fanno due chiacchiere evadendo dalla casalinga clausura da covid 19, qualcuno, ironicamente, si chiede e chiede ai presenti (parafrasando Trump?) se l’arrivo di tanta neve si debba imputare alle conseguenza di quel famoso riscaldamento globale di cui tanto si parla in ogni dove. In effetti trovarsi nel gelo e sommersi dalla neve nel bel mezzo di un cambiamento climatico che, secondo quanto viene assicurato, sta, di anno in anno, facendo aumentare la temperatura (media annua) ovunque nel globo terracqueo può sconcertare e, a prima vista, apparire contraddittorio. Come al solito, come sempre più spesso accade, qualcuno gioca a semplificare la complessità rendendola facilmente percepibile ed immediatamente appetibile con interventi ad effetto, di sicura efficacia ma sommari e del tutto superficiali… . Le conseguenze del clima che cambia non si possono ridurre solo a delle estati un po’ più calde e al ritiro dei nostri ghiacciai, gli effetti sono molto più vari, talvolta imprevedibili e non sempre immediatamente decifrabili nella loro origine ed evoluzione. Per quanto ne so si configurano in un continuo aumento, d’intensità e di frequenza, dei fenomeni atmosferici estremi cioè di quegli eventi meteorologici particolarmente impattanti che, in passato si verificavano raramente e che, da alcuni decenni, hanno iniziato a ripetersi con una cadenza più ravvicinata. Tempeste d’acqua e di vento (Vaia), ripetute precipitazioni d’insolita intensità con conseguenti eventi franosi e alluvionali, gelo e nevicate precoci e tardive, temporali fuori stagione, lunghi e reiterati periodi siccitosi… e tra questi periodi, molto secchi, i molti inverni senza neve o quasi senza neve che hanno preceduto questo nostro inverno 2020/21 particolarmente nevoso. Nevoso come, di tanto in tanto, lo sono comunque stati altri inverni in passato (eccone alcuni che ho vissuto di persona e altri, meno recenti ma noti a tutti: inverni 2008/09, 2003/2004, 1985/86, 1981, 1950/51, 1916/17 con Santa Lucia Nera... e chissà quanti altri inframmezzati e antecedenti…). Annate particolarmente nevose, come e più di quella attuale, che si sono sempre verificate e che, conseguentemente, rendono difficile stabilire in quale misura le attuali copiose nevicate siano imputabili al cambiamento climatico, siano da considerarsi un effetto o quantomeno una enfatizzazione di un evento meteorologico destinato a verificarsi comunque, al di là del clima che muta.. Forse, ma solo forse (non voglio incorrere in macroscopiche semplificazioni) si potrebbe (nuovamente forse) supporre che i lunghi mesi inverni privi di neve, che ci hanno accompagnati durante gli ultimi anni, possano essere, loro sì, una conseguenza del cosiddetto “clima impazzito”. Annate quasi totalmente prive di neve un tempo erano molo più rare. E a proposito di stagioni invernali senza neve ho recentemente riletto quanto scrissi, alcuni anni fa, in questo stesso blog, dopo una nevicata, una normale nevicata, né esigua ne copiosa, che aveva interrotto un lungo periodo siccitoso, un periodo povero di neve, protrattosi per più anni. Lo ripresento qui sotto trovandolo molto attuale. << Da alcuni anni il bel manto candido del tempo passato non ricopriva più i prati e i boschi del fondovalle e anche sui versanti più alti i bei fiocchi immacolati si adagiavano in ritardo, creando un tappeto sottile, misero, e discontinuo. La neve non era più il dono che già in novembre, immancabilmente, il cielo elargiva a piene mani su tutta la valle... La neve che scendeva era ormai diventata selettiva, sceglieva solo le stazioni sciistiche invernali, era una neve “firmata”, fabbricata ad hoc da artificiosi congegni, era una neve che si addensava in spazi ristretti distendendosi solo in fasce sottili che tracciavano, sui versanti dei monti, innaturali serpentine bianche nel giallo autunnale dei pascoli alti e nel verde intenso delle fitte peccete. Tutto ciò che un tempo era familiare, il bel paesaggio totalmente innevato, sembrava definitivamente scomparso. “Colpa del cambiamento climatico” si sosteneva nei bar della valle, “colpa dell'innalzamento della temperatura che sta divorando anche i nostri ghiacciai”... ma l'abitudine “consumistica”, troppo ingorda di energia e prodiga di gas serra, stentava a cambiare e la corsa al completamento degli impianti di “innevamento programmato” accoppiata allo scavo di nuovi bacini per l'acqua di scorta procedeva sempre più celermente. La carenza di precipitazioni nevose, la neve che sempre più frequentemente mutava in pioggia sul fondovalle e non solo, erano tra i sintomi più evidenti delle trasformazioni climatiche in atto, confermando quanto i climatologi “predicavano” da tempo. Ma era soprattutto l'accentuarsi delle condizioni meteorologico estreme che ormai caratterizzavano tutte le quattro stagioni, il “tempo matto”, a non lasciare più alcun dubbio. Tutti lo sapevano e spesso lo vivevano sulla loro pelle. In inverno ma non solo accadeva che ad un periodo anomalamente mite ne seguisse immediatamente uno freddissimo o che ad una stagione siccitosa, priva di precipitazioni ne seguisse una particolarmente umida. Tutti rammentavano le interminabili, abbondanti nevicate della stagione invernale 2008-2009 che avevano portato tanti problemi e grande preoccupazione. Eventi così particolari non si erano fortunatamente più ripetuti alle nostre latitudini e all'opposto durante gli ultimi inverni si era verificata una costante tendenza alla siccità, alla scarsità di precipitazioni nevose, che era altrettanto negativa. Fortunatamente dopo gli inverni asciutti degli ultimi anni ora è finalmente ricomparsa la neve.... è “fioccato” anche alle quote medio basse e la neve si è accumulata in discreta anche se non eccezionale quantità... in quantità comunque tale da richiamare alla memoria gli inverni del “tempo che fu” quando la neve non mancava mai.… ...>> Come già detto, anche quest’anno, è ritornata la neve, è ritornata come "allora", è ritornata dopo alcuni inverni di magra... è ricomparsa in abbondanza, accumulandosi in grande quantità, in quantità esagerata, talmente esagerata che, a differenza di “allora”, “ora”, in paese, le chiacchiere vanno assumendo ben altro orientamento indirizzandosi a mettere in dubbio il riscaldamento globale, riscaldamento dato per certo dalla totalità degli studiosi. Per quanto mi riguarda, al di là di ogni considerazione sul cambiamento climatico e nonostante i disagi che la neve inevitabilmente mi ha procurato e che ancora mi procura, non posso che rallegrarmi davanti a questa novità. Rallegrarmi come un bimbo davanti ai fiocchi che volteggiano scendendo al suolo ed emozionarmi, durante le mie abituali passeggiate, di fronte ad un paesaggio imbiancato come da tempo non si vedeva, di fronte ad una vista piacevolmente insolita, talmente insolita da sorprendere. A proposito di cambiamento climatico: “Terra futura – Dialoghi con papa Francesco sull’ecologia integrale” di Carlo Petrini è un libro semplice e interessante di cui consiglio la lettura. Autore: Umberto Zanella
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P.S. Ogni post del blog è di un diverso autore
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