“Non esistono montagne impossibili, solo uomini che non sono in grado di salirle.” Questo potrebbe essere l’epitaffio, magari lo è, scolpito sulla lapide di Cesare Maestri, il Ragno delle Dolomiti, scomparso di recente. Anch’io unisco la mia silente voce al cordoglio per la scomparsa di un grande trentino. L’alpinismo è egoismo, spavalderia, egocentrismo intorno a figure di uomini eccezionali, inutile volerlo negare, che sacrificano la loro vita alla conquista dell’inutile. Ma è altresì gesto atletico, coraggio, apparente indifferenza con cui le forti mani abbarbicano la roccia o il ghiaccio, sfida alle leggi della fisica, andate e ritorni da luoghi riservati in passato solo alla presenza degli dei. Le persone che amano la montagna e che si sentono inermi di fronte ad essa e quelle per cui le montagne sono raggiungibili solo con gli impianti altrimenti sono impossibili vedono Cesare Maestri ed i grandi alpinisti come persone al di fuori della realtà, semidei che non possono morire se non cadendo da una parete o colpiti da terribile morbo. Io povero escursionista che mi limito a deambulare sui sentieri tracciati da mani esperte ammiro questi uomini ed allo stesso tempo li invidio, incapace (per prove effettuate e per paura) di emularli. Cesare è morto nel suo Trentino, in un letto d’ospedale, accudito ed amato dalla sua famiglia come pochi alpinisti di fama possono sperare. Ok Cesare, ti aspettano ancora strade e vette, dove andrai d’ora in poi, tracciale per noi ed aspettaci, con calma. Riporto l’articolo, con foto e video, di Montagna TV. “Non esistono montagne impossibili. Esistono solo uomini che non sono capaci di salirle.” Cesare Maestri Soprannominato “il Ragno delle Dolomiti” Cesare Maestri è stato un innovatore in campo alpinistico. Uno dei primi ad affrontare difficili itinerari di sesto grado, il più alto del periodo, in solitaria sia in salita che in discesa. Scalatore, scrittore e partigiano ha preso parte alla guerra di resistenza combattendo attivamente sulle montagne trentine. Escluso dalla spedizione italiana al K2 del 1954 per un’ulcera allo stomaco poi rivelatasi inesistente, la sua intensa carriera alpinistica ha contribuito a dare uno slancio alla pratica trovando soluzioni a problemi e nuove modalità di contatto con la montagna. Convinto sostenitore di un approccio moderno alle difficoltà oltre ad allenarsi ha contribuito allo sviluppo di nuovi materiali per l’arrampicata. La vita Nato a Trento il 2 ottobre 1929 da oltre quaranta anni vive a Madonna di Campiglio dove per anni ha gestito il negozio “La bottega di Cesare Maestri”. Rimasto orfano di mamma a soli 7 anni cresce, insieme ai suoi due fratelli, sotto l’educazione del papà, Toni Maestri: un attore girovago, come lo era anche la mamma Mariarosa, stabilitosi grazie a un impiego nella pubblica amministrazione. La loro è una vita tranquilla che viene scombussolata, come quella di un po’ tutti, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il padre Toni viene condannato a morte per attività antiaustriaca così scappano, prima a Ferrara, poi a Trento. Qui Cesare, appena quattordicenne, sceglie di salire tra le montagne amiche unendosi alle truppe partigiane. Terminata la guerra il padre lo manda a Roma per fargli studiare recitazione, come hanno fatto anche i suoi fratelli. Anna, la sorella, diventerà un’affermata attrice mentre Giancarlo, il fratello, diventerà direttore del doppiaggio dando voce, tra gli altri, a Sean Connery. Cesare regge due anni a Roma, periodo in cui partecipa attivamente alle iniziative del Partito Comunista Italiano, quindi torna a Trento dove scopre il mondo dell’arrampicata. La montagna diventa il suo antistress, un modo per distrarre la mente dai ricordi accumulati negli anni di guerra. Muore il 19 gennaio 2021, all’età di 91 anni. L’alpinismo In breve tempo la passione per la scalata di Cesare Maestri diventa totalizzante. I progressi sono immediati e la prima grande impresa non si fa attendere per molto tempo. Nel 1951, a 22 anni, si trova ai piedi del Croz dell’Altissimo dove sale in solitaria la via Detassis-Giordani. Per la carriera alpinistica del giovane trentino è un punto di non ritorno, da questo momento in poi inizia infatti una lunga sequenza di imprese solitarie che lo vedono impegnato sulle più alte difficoltà delle Dolomiti. Nel 1952 ritorna sul Croz dell’Altissimo dove ripete la via Dibona, quindi si sposta sulla Comici al Sassolungo e ancora sulla Civetta dove sale lungo la via Solleder. Sempre nello stesso anno consegue il brevetto di guida alpina. Nel 1953 sale la via delle Guide al Crozzon di Brenta e la Detassis alla Brenta Alta. L’anno successivo realizza la traversata solitaria dalla Cima d’Ambièz alla Bocca del Tuckett concatenando sedici cime della catena centrale in meno di 24 ore. Un exploit unico per il periodo. Nel 1955 sul Sass de Luesa ripete in solitaria la via Vinatzer, quindi la Oppio al Croz dell’Altissimo. Nel 1956 ritorna sul Crozzon di Brenta dove percorre in discesa e in solitaria la via delle Guide. La discesa solitaria di vie di grado elevato sarà una delle caratteristiche del Ragno delle Dolomiti. Tra le importanti vie scese da Maestri va sicuramente citata la Solleder al Sass Maor. Due importanti realizzazioni risalgono ancora al 1956: la via Micheluzzi al Piz Ciavazes e la prima solitaria invernale dello spigolo nord del Cimon della Pala. Nel corso della sua attività alpinistica Cesare Maestri ha portato a termine circa 3500 salite di cui almeno un terzo in solitaria. La sua passione per la montagna l’ha spinto a continuare anche in età matura. All’età di 69 anni ancora pratica l’arrampicata in modo eccelso, tanto che nel 1998 ripete la via Maestri-Alimonta alla Rocca di San Leo. Nel 2002 poi organizza, con l’obiettivo di raggiungere la vetta, una spedizione sullo Shisha Pangma di cui fanno parte anche Sergio Martini e Fausto De Stefani. Durante la scalata Maestri viene fermato dal medico della spedizione a causa del mal di montagna. Il Cerro Torre Il Cerro Torre è la montagna che per sempre porterà il nome di Cesare Maestri. Lo scalatore trentino gli si avvicina per la prima volta nel 1958, insieme a una spedizione italo-argentina. Arrivati alla base del Torre il gruppo di Maestri incontra un’altra spedizione italo-argentina di cui fanno parte anche Walter Bonatti e Carlo Mauri. Gli organizzatori delle due hanno degli attriti che portano al ritiro di alcuni sponsor e a gravi problemi nel finanziare la salita. Come conseguenza Maestri non riesce a tentare il Cerro Torre. Rientrato da questa amara esperienza Cesare decide di provarci l’estate successiva, insieme a Toni Egger e Cesarino Fava. A tentare la vetta sono Maestri ed Egger, partono il 28 gennaio sfruttando una finestra di bel tempo che si chiude rapidamente trattenendo i due nella bufera per giorni. Ad attenderli, alla base della parete, c’è Fava. Aspetta fino al 3 febbraio quando finalmente, dalla nebbia intravede la sagoma di Maestri in discesa. Il suo racconto è tragico. Cesare spiega di aver raggiunto la cima con Egger e che durante la discesa, lungo una via diversa, quest’ultimo è stato travolto da una valanga. I tentativi di ritrovare il corpo di Toni Egger sono vani, alcuni resti sono poi stati recuperati nel 1974. Con lui scompare anche la macchina fotografica contenente le foto di vetta. Nonostante questo, il racconto di Maestri non viene messo in dubbio, almeno fino a quando nel 1968 una spedizione inglese affronta il Cerro Torre lungo un itinerario ritenuto più semplice rispetto a quello superato nel 1959. Gli alpinisti non riescono a raggiungere la cima e, una volta rientrati, iniziano a mettere in dubbio la riuscita del progetto di Maestri. A raccogliere queste opinioni la rivista Mountain che ha in seguito analizzato a fondo la salita del 1959 focalizzando l’attenzione su tutti i punti deboli della scalata. In seguito a queste accuse l’alpinista decide di organizzare una nuova spedizione diretta alla montagna. Parte nel 1970 insieme a Ezio Alimonta, Daniele Angeli, Claudio Baldessarri, Carlo Claus e Pietro Vidi. Il gruppo sceglie di affrontare la salita lungo l’inviolato spigolo sud-est. Scalano portando con sé un compressore con cui conficcare nella roccia dei chiodi a espansione, negli ultimi 350 metri ne utilizzano circa 400. Dopo aver ferito la roccia con l’ultimo di questi Maestri si è fermato, senza scalare il fungo di ghiaccio che forma la vetta del Torre. “Non fa veramente parte della montagna, prima o poi cadrà” la motivazione con cui il trentino ha giustificato la scelta. Nella discesa, Cesare è ritornato sui suoi passi rompendo gli ultimi trenta chiodi posizionati e ancorando a uno di essi il compressore, i cui resti sono ancora oggi visibili. Per questo il tracciato è anche chiamato via del Compressore. Per l’utilizzo massivo di chiodi a espansione la salita è stata pesantemente criticata da buona parte della comunità alpinistica internazionale. Allo stesso modo, anni dopo, la salita del 1959, che avrebbe rappresentato anche la prima salita assoluta al Cerro Torre, è stata disconosciuta dal mondo alpinistico per mancanza di prove certe riguardo la linea. Maestri continua a difendere tutt’ora la veridicità della sua versione. Onorificenze
“L’alpinista più bravo è quello che diventa vecchio.”
Cesare Maestr
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Un dicembre così freddo e nevoso non si era visto da parecchio tempo e anche all’inizio di questo nuovo anno, durante i primi giorni di gennaio, la situazione meteorologica non è mutata, il cielo sta “regalando” altra neve e altro gelo. Così, lungo le strade e nelle piazze innevate del paese oltre che nei negozi, dove i valligiani incidentalmente si incontrano e fanno due chiacchiere evadendo dalla casalinga clausura da covid 19, qualcuno, ironicamente, si chiede e chiede ai presenti (parafrasando Trump?) se l’arrivo di tanta neve si debba imputare alle conseguenza di quel famoso riscaldamento globale di cui tanto si parla in ogni dove. In effetti trovarsi nel gelo e sommersi dalla neve nel bel mezzo di un cambiamento climatico che, secondo quanto viene assicurato, sta, di anno in anno, facendo aumentare la temperatura (media annua) ovunque nel globo terracqueo può sconcertare e, a prima vista, apparire contraddittorio. Come al solito, come sempre più spesso accade, qualcuno gioca a semplificare la complessità rendendola facilmente percepibile ed immediatamente appetibile con interventi ad effetto, di sicura efficacia ma sommari e del tutto superficiali… . Le conseguenze del clima che cambia non si possono ridurre solo a delle estati un po’ più calde e al ritiro dei nostri ghiacciai, gli effetti sono molto più vari, talvolta imprevedibili e non sempre immediatamente decifrabili nella loro origine ed evoluzione. Per quanto ne so si configurano in un continuo aumento, d’intensità e di frequenza, dei fenomeni atmosferici estremi cioè di quegli eventi meteorologici particolarmente impattanti che, in passato si verificavano raramente e che, da alcuni decenni, hanno iniziato a ripetersi con una cadenza più ravvicinata. Tempeste d’acqua e di vento (Vaia), ripetute precipitazioni d’insolita intensità con conseguenti eventi franosi e alluvionali, gelo e nevicate precoci e tardive, temporali fuori stagione, lunghi e reiterati periodi siccitosi… e tra questi periodi, molto secchi, i molti inverni senza neve o quasi senza neve che hanno preceduto questo nostro inverno 2020/21 particolarmente nevoso. Nevoso come, di tanto in tanto, lo sono comunque stati altri inverni in passato (eccone alcuni che ho vissuto di persona e altri, meno recenti ma noti a tutti: inverni 2008/09, 2003/2004, 1985/86, 1981, 1950/51, 1916/17 con Santa Lucia Nera... e chissà quanti altri inframmezzati e antecedenti…). Annate particolarmente nevose, come e più di quella attuale, che si sono sempre verificate e che, conseguentemente, rendono difficile stabilire in quale misura le attuali copiose nevicate siano imputabili al cambiamento climatico, siano da considerarsi un effetto o quantomeno una enfatizzazione di un evento meteorologico destinato a verificarsi comunque, al di là del clima che muta.. Forse, ma solo forse (non voglio incorrere in macroscopiche semplificazioni) si potrebbe (nuovamente forse) supporre che i lunghi mesi inverni privi di neve, che ci hanno accompagnati durante gli ultimi anni, possano essere, loro sì, una conseguenza del cosiddetto “clima impazzito”. Annate quasi totalmente prive di neve un tempo erano molo più rare. E a proposito di stagioni invernali senza neve ho recentemente riletto quanto scrissi, alcuni anni fa, in questo stesso blog, dopo una nevicata, una normale nevicata, né esigua ne copiosa, che aveva interrotto un lungo periodo siccitoso, un periodo povero di neve, protrattosi per più anni. Lo ripresento qui sotto trovandolo molto attuale. << Da alcuni anni il bel manto candido del tempo passato non ricopriva più i prati e i boschi del fondovalle e anche sui versanti più alti i bei fiocchi immacolati si adagiavano in ritardo, creando un tappeto sottile, misero, e discontinuo. La neve non era più il dono che già in novembre, immancabilmente, il cielo elargiva a piene mani su tutta la valle... La neve che scendeva era ormai diventata selettiva, sceglieva solo le stazioni sciistiche invernali, era una neve “firmata”, fabbricata ad hoc da artificiosi congegni, era una neve che si addensava in spazi ristretti distendendosi solo in fasce sottili che tracciavano, sui versanti dei monti, innaturali serpentine bianche nel giallo autunnale dei pascoli alti e nel verde intenso delle fitte peccete. Tutto ciò che un tempo era familiare, il bel paesaggio totalmente innevato, sembrava definitivamente scomparso. “Colpa del cambiamento climatico” si sosteneva nei bar della valle, “colpa dell'innalzamento della temperatura che sta divorando anche i nostri ghiacciai”... ma l'abitudine “consumistica”, troppo ingorda di energia e prodiga di gas serra, stentava a cambiare e la corsa al completamento degli impianti di “innevamento programmato” accoppiata allo scavo di nuovi bacini per l'acqua di scorta procedeva sempre più celermente. La carenza di precipitazioni nevose, la neve che sempre più frequentemente mutava in pioggia sul fondovalle e non solo, erano tra i sintomi più evidenti delle trasformazioni climatiche in atto, confermando quanto i climatologi “predicavano” da tempo. Ma era soprattutto l'accentuarsi delle condizioni meteorologico estreme che ormai caratterizzavano tutte le quattro stagioni, il “tempo matto”, a non lasciare più alcun dubbio. Tutti lo sapevano e spesso lo vivevano sulla loro pelle. In inverno ma non solo accadeva che ad un periodo anomalamente mite ne seguisse immediatamente uno freddissimo o che ad una stagione siccitosa, priva di precipitazioni ne seguisse una particolarmente umida. Tutti rammentavano le interminabili, abbondanti nevicate della stagione invernale 2008-2009 che avevano portato tanti problemi e grande preoccupazione. Eventi così particolari non si erano fortunatamente più ripetuti alle nostre latitudini e all'opposto durante gli ultimi inverni si era verificata una costante tendenza alla siccità, alla scarsità di precipitazioni nevose, che era altrettanto negativa. Fortunatamente dopo gli inverni asciutti degli ultimi anni ora è finalmente ricomparsa la neve.... è “fioccato” anche alle quote medio basse e la neve si è accumulata in discreta anche se non eccezionale quantità... in quantità comunque tale da richiamare alla memoria gli inverni del “tempo che fu” quando la neve non mancava mai.… ...>> Come già detto, anche quest’anno, è ritornata la neve, è ritornata come "allora", è ritornata dopo alcuni inverni di magra... è ricomparsa in abbondanza, accumulandosi in grande quantità, in quantità esagerata, talmente esagerata che, a differenza di “allora”, “ora”, in paese, le chiacchiere vanno assumendo ben altro orientamento indirizzandosi a mettere in dubbio il riscaldamento globale, riscaldamento dato per certo dalla totalità degli studiosi. Per quanto mi riguarda, al di là di ogni considerazione sul cambiamento climatico e nonostante i disagi che la neve inevitabilmente mi ha procurato e che ancora mi procura, non posso che rallegrarmi davanti a questa novità. Rallegrarmi come un bimbo davanti ai fiocchi che volteggiano scendendo al suolo ed emozionarmi, durante le mie abituali passeggiate, di fronte ad un paesaggio imbiancato come da tempo non si vedeva, di fronte ad una vista piacevolmente insolita, talmente insolita da sorprendere. A proposito di cambiamento climatico: “Terra futura – Dialoghi con papa Francesco sull’ecologia integrale” di Carlo Petrini è un libro semplice e interessante di cui consiglio la lettura. Autore: Umberto Zanella
Paragono a musica questo mio vagare strimpellare distratto da uccello migratore. Ad un passo dopo l'altro si aggiungono leggeri il frusciar di foglie al vento ed echi di lontani frastuoni. E' cadenzato, fluente, ritmico ma mai uguale questo incedere di passi, questo mio cammino esistenziale. Par quasi che un canto mi nasca dal di dentro ma non serve voce a palesarlo a Dio. Lui sente anche le parole non dette ed ascolta le canzoni mai scritte. Vede anche ciò che non è stato fatto ci conosce meglio di noi stessi senza averci mai parlato. Questa musica del vivere, questa sinfonia del cammino è forse legata al nostro sentire il divino ch'è insito in noi, e se chi si professa maestro perde le sue note in contrappunti chi non si stanca d'arpeggiare guarda, impara e tira avanti. Quando i miei passi si stancheranno di suonare prendimi le mani ed impariamo a volare. Enrico Menestrina ![]() Guardiamo oltre con serenità. Percepisco molto disagio da tanta gente in questo periodo. E così si tende ad essere insofferenti verso tutti e verso tutto; qualsiasi evento accada viene vissuto male, come un attentato alla propria libertà. Si vede tutto dal rovescio della medaglia, si prevedono risvolti negativi ed altri problemi che si creeranno sicuramente dopo che sia risolto quello attuale Questo non è essere in pace con se stessi ... Chi non vuole vaccinarsi non è stupido, ma è solamente bloccato dalla certezza di non sapere. E non servono a niente tutte le spiegazioni puntuali, dove ci spiegano come il vaccino sia stato preparato con cura e cognizione di causa, perché l’unica cosa che non ci possono spiegare (per ovvie ragioni temporali) è quello che potrebbe succedere fra un anno. È scritto chiaramente sull’informativa allegata alla liberatoria che dovrà firmare chiunque intenda vaccinarsi, come ultimo punto: “Non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza.” È questo, e solo questo il punto sul il quale non ci sono appigli tangibili per convincere una persona a vaccinarsi con certezze assolute; il resto è fuffa, per noi che non possiamo comprendere la composizione chimica e l’effetto delle molecole mRNA. Anche avendo fiducia nella scienza e negli scienziati, non è possibile togliere il dubbio, semplicemente perché sappiamo quante volte l’uomo abbia commesso errori anche in buona fede. Nonostante tutte le certezze tecniche e scientifiche, abbiamo visto aerei cadere inesorabilmente, navicelle spaziali esplodere con l’equipaggio a bordo. Ma poi l’uomo è arrivato sulla luna ed ha inviato navicelle oltre il sistema solare. La scienza e la tecnologia ci hanno dotati di comfort irrinunciabili da chiunque al giorno d’oggi e sono state trovate cure per debellare malattie devastanti. Non è corretto a rigor di logica tuttavia, aver fiducia nella scienza “a fasi alterne”, cioè solo quando si ha convenienza ... E servono ancor meno sicuramente, gli insulti e la cattiveria che troviamo dappertutto sui social (sia da parte di chi è “pro” che da chi è “contro”). È un momento delicato; si deve agire con dolcezza, cercando di ricondurre il tutto ad un filo logico. È impensabile al momento un obbligo vaccinale. Provocherebbe più danni che benefici come recita il vecchio adagio trentino: “Le robe fate per forza, no le val na scorza” La paura; quello stato d’animo che ci rovina le giornate, 8 volte su 10, per cose che non accadranno mai (non chiedetemi le fonti da dove ho letto questo dato, perché non me lo ricordo e non ho proprio voglia di andare a cercare ...), ma che serve per restare vigili e poter superare al meglio gli altri due eventi che sicuramente succederanno, non deve però superare quella soglia che trasforma la nostra vita in un inferno. È la paura che abbiamo quando dobbiamo salire su un aereo o su una funivia; nonostante ci spieghino per benino e con numeri razionali e logici che salire su un’autovettura è 1000 volte più pericoloso, quando siamo appesi per aria ed un refolo fa oscillare la nostra piccola “bolla di esistenza”, proviamo una paura infinita, mentre quando saliamo in auto siamo tranquilli, rilassati e non poniamo nessun ostacolo o dubbio all’uso dell’automobile per spostarci ad esempio da Pergine a Trento, anche se sappiamo che a piedi farebbe più bene a noi ed all’ambiente. Provate ad immaginare di dover salire su una vettura e sfrecciare ai 100 all’ora per la prima volta nella vostra vita. Ed una persona non può essere giudicata per la paura che prova, perché è una cosa che non possiamo scegliere con piena coscienza, ma solo cercare di aiutarci a superare gli ostacoli E niente .... è paradossale ! È solo questione di abitudine; come siamo abituati a salire in macchina senza paura e come non abbiamo remore ad introdurre sostanze estranee nel nostro corpo, nonostante sia chiaramente e scientificamente dimostrato che siano dannose (questa volta, anche con l’ausilio della statistica temporale), solo perché “siamo abituati” e lo abbiamo fatto molte volte. E non è questione di coerenza, perché se così fosse, chi teme molto per la sua incolumità, certamente smetterebbe immediatamente di fumare ad esempio e con più convinzione rispetto al rifiuto del vaccino. Come sono paradossali coloro che rifiutano questo vaccino specifico e magari non hanno nessun problema a farsi inoculare i vaccini che sono obbligatori per farsi ad esempio un viaggio in Kenya ... Chi sceglie di non vaccinarsi non va giudicato, umiliato o fatto sentire ignorante o addirittura scemo, perché proprio non c’azzecca. Credo dovremmo realizzare che l’umanità è in trappola e credo dovremmo fare il possibile per uscirne, a meno che non si accetti di vedere i teatri chiusi, chiusi anche gli stadi, niente musica dal vivo, scuole ed ospedali bloccati, sempre mascherine e precauzioni varie, nonché vivere sempre con una certa apprensione, senza aver fatto il possibile per uscirne. E personalmente credo il vaccino sia una buona idea. Il vaccino credo sia l’unica arma disponibile per una società come la nostra che ambisce ad essere libera; l’alternativa è solo la dittatura e la violenza (vedi Cina). NON credo che la società (nella sua maggioranza), accetterà di vivere in questo modo, per cui si cercherà di raggiungere questa fatidica “immunità di gregge” in qualsiasi modo sarà possibile. Dovremo accettare senza egoismi, la democratica scelta della maggioranza delle persone che non ne possono più di questa situazione e che vogliono ritornare a vivere. Personalmente credo, affronterò questo passaggio con serenità e guardando oltre; cosa che non siamo più abituati a fare perché facciamo ogni scelta pensando di essere immortali. Chi ha già fatto i conti con la propria esistenza, credo non avrà problemi ad affrontare questa prova che la vita pone sul nostro cammino. Ed auguro a voi amici miei, di poter superare questo momento con tanta serenità (anche se questa renziana espressione ormai è bannata ); in fondo a me mancate solo voi, la musica e poter rivedere mia mamma che con la tenacia dei suoi 91 anni, è riuscita a vincere anche questo maledetto virus, nonostante tutte le sue patologie pregresse. Sinceramente, vi auguro un nuovo anno che ci liberi da questa schiavitù (e questo mi sembra possa bastare). Buona vita ! Ciao Angelo Un articolo di Dario Ceccarelli del "Sole 24 ore" che intervista Paolo Cognetti, autore de "Le otto montagne"
Sembra una cosa molto strana, quasi inopportuna, parlare di montagna. Soprattutto durante queste feste, così caratterizzate da mille restrizioni e dall’idea che, anche senza divieti, non si possa fare niente. Come se fossimo sospesi in una bolla e tutti i rituali delle feste - anche andare in montagna - fossero impraticabili a prescindere. Le vacanze in montagna, in particolare sciare o prendersi una pausa in una baita tra una discesa e l’altra, tra gente spensierata con una bella birra e uno strudel di mele, sembrano appartenere a un altro tempo beato, di quando tutto questo non c’era e, dopo il pranzo di Natale e tutti gli auguri ai parenti, si caricavano sci e bagagli sull'auto e via si andava verso le piste con un’unica preoccupazione: che non ci fosse la neve, ma solo prati spelacchiati e una striscia di ghiaccio sparato dai cannoni. Quest’anno, ironia della sorte, di neve ce n’è quanta si vuole. Su tutto l'arco alpino, anche a quote basse. Chiedetelo agli albergatori, che ogni volta sembra di pugnalarli. Solo che per le note vicende, gli impianti di risalita sono chiusi. Non solo per evitare assembramenti nelle funivie, ma anche per evitarli dentro ai punti di ristoro, in quegli invitanti rifugi in legno con la stufa al centro della sala che irradia calore e la polenta fumante che ti aspetta sul tagliere. Tutto perduto allora? Meglio rimandare a giorni migliori e non pensarci più? Paolo Cognetti , 41 anni, noto scrittore di ambienti naturali, vincitore del Premio Strega nel 2017 per il best seller “Le otto montagne”, non la pensa così. Anzi, dice che questo è un buon momento per riscoprire certi posti che semmai, prima, erano troppo affollati o comunque lontani dall’idea di pace e di natura cui si associa la montagna. «Poi diciamola tutta», rincara Cognetti: «Scendere con gli sci non è vietato. Le piste ci sono. Ormai sono quasi battute. Il problema è un altro: che non si può salire con gli impianti. Pazienza, ci si può comunque arrangiare in tanti altri modi….». Ma tu cosa suggerisci a chi va comunque in montagna? «Di riscoprire la natura. E di provare qualcosa di nuovo. Anche con gli sci. Provare a salire con le pelli di foca e poi scendere giù. È molto divertente. Ovvio, bisogna fare più fatica e prendere qualche precauzione dove la neve è meno battuta. In certi casi forse è meglio farsi accompagnare da una guida, almeno la prima volta. Poi si va, ed è una piccola conquista. A me piace molto anche girare nei boschi. C’è silenzio, pace. Si possono vedere gli animali. Quasi stupiti di tanto silenzio. Sono sensazioni nuove. Soprattutto per chi va sempre su e giù con gli impianti». D’accordo, il tuo è un bel quadretto, da libro delle favole. Ma la realtà è che, senza impianti funzionanti, gli alberghi sono semivuoti. Tanta gente che vive di turismo invernale è ferma: il rischio è quello di un collasso economico. O no? «Non dirlo a me. Io abito in Val d’Aosta, vicino a Brusson, un posto abbastanza noto, che di solito per le feste si riempie di turisti. Molti miei amici che lavorano negli impianti e negli alberghi sono a casa. Molto preoccupati. Tra l’altro la Valle D'Aosta, a differenza del Piemonte e della Lombardia, non ha turismo interno. Arrivano tutti da altre regioni. Il problema però nasce prima: e nasce dal fatto che in montagna c’è una monocoltura dominante, quella dello sci da pista. Non va bene, bisogna diversificare. Per esempio nessuno impedisce lo sci di fondo. Oppure di muoversi con le ciaspole. Ci sono tanti modi, più economici più naturali, per fare una bella vacanza in montagna. Anche questi mega alberghi non sempre sono una risorsa…». In che senso? «Nel senso che hanno costi alti, presuppongono un turismo sempre di massa, da parco dei divertimenti. Ma la montagna è un’altra cosa. In certi casi funzionano meglio strutture più leggere, B&b, agriturismi per non più di quindici persone. È un altro tipo di vacanza, un altro tipo di cultura della montagna. Meno gente assembrata, spazi meno affollati. Un contatto con la natura meno invasivo ma più rilassante. C’è un grosso problema culturale alla base di tutto…». Culturale? Ma se si chiudono gli impianti, la montagna muore, dicono i gestori delle funivie. Dicono anche che sono loro a tenerla in ordine, a controllare che non ci siano frane o altre minacce… «Mah, i gestori sono quasi tutti pubblici, quindi questo lavoro lo si fa con i soldi dei contribuenti. Ma io dico un’altra cosa: che viene proposto solo un certo tipo di vacanza in montagna. Invece bisogna diversificare le proposte. Questo è un problema, che può peggiorare anche a causa dei cambiamenti climatici…». Spiegati meglio… «Dico una cosa banale: in futuro, e non troppo lontano, molte località sciistiche situate non molto in alto rischiano di chiudere per poca neve. O comunque per il clima più mite. Adesso, non domani, bisogna che si diano da fare per offrire qualcosa di alternativo allo sci da discesa. Bisogna reinventare il turismo invernale. E anche quello estivo. Aggiungo un’altra considerazione: visto che con lo smart working si può lavorare in remoto, chi ha la possibilità si è trasferito con la propria famiglia dalla città verso luoghi più piacevoli. Anche in montagna, magari non troppo in quota. Qualche paese si è ripopolato. Si vedono anche bambini. Per questo dico che nulla è immutabile, anche la montagna può evolvere. Invece si spera sempre che il prossimo inverno porti un sacco di neve. Può succedere, ma poi torniamo al punto di prima. Insomma, bisogna approfittare di questa crisi per ripartire con una nuova rinascita». Come hai vissuto questo anno di pandemia? «Abbastanza bene. Facendo lo scrittore, il silenzio e la concentrazione aiutano. Sono andati avanti nel mio prossimo romanzo. È successo anche ad altri scrittori. Certo, mi mancano dei contatti umani, ma pazienza. Ci sono dei tempi da rispettare…». Chiudiamo con una ventata di ottimismo: cosa diresti a chi va in montagna e non può sciare? «Lo ripeto. Gli direi di farsene una ragione di mettersi le pelle di foca e provare a fare sci alpinismo. O di fare delle gite nei boschi. Di prendere questo divieto come una nuova possibilità per fare una vacanza diversa, meno stressante e anche più a buon mercato. In natura bisogna sapersi adattare alle mutazioni. Abituiamoci anche noi. Magari poi ci piace». |
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